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L’INVASIONE DEGLI ULTRA-UMANI

Avete presente L’invasione degli ultracorpi? Ma sì, quel film del 1956 dove gli alieni replicavano gli umani clonandoli dentro enormi baccelloni, col risultato di avere copie perfette degli originali salvo per un piccolo particolare: l’assenza totale di sentimenti, emozioni e umanità. 

Bene. L’altra sera guardo un remake del 2007, Invasion, con Nikole Kidman e Daniel Craig, dove la replica degli umani non avviene mediante clonazione, ma mediante contagio di un virus alieno arrivato sulla Terra a bordo di uno Shuttle.

Inizialmente propagato attraverso un liquame verde schizzato a getto dalla bocca, tipo vomito da indemoniato dell’Esorcista (sicuramente più scenografico delle famose goccioline di saliva con cui ci hanno fatto due palle così, ma il concetto è lo stesso), nel prosieguo del film il virus è invece diffuso mediante la somministrazione di quello che gli umani in buona fede credono essere un vaccino. Nella trama non mancano poi personaggi che non vogliono lasciarsi soggiogare dal “mondo nuovo” in via di formazione, né quelli dotati di immunità naturale al virus: ovviamente il destino degli uni e degli altri è di essere emarginati e progressivamente eliminati. 

Tutto ciò non vi ricorda nulla? Eccome, direte voi.

Ma, a parte le strabilianti similitudini con la realtà di oggi, colpisce nel film lo sforzo titanico di quelli che, avendo compreso ciò che sta accadendo, decidono di non arrendersi, di non lasciarsi trasformare nei nuovi zombie, di restare umani. 

E così mi sono passati davanti agli occhi i volti delle donne di cui mi sono innamorato e degli uomini con cui ho simpatizzato in tutti questi anni, e avere saputo che si sono siringati con assoluta nonchalance con tre o quattro dosi di quella roba chiamata vaccino mi rende oggi impossibile riconoscerli: sono divenuti dei perfetti estranei, dei veri e propri alieni, ai quali non ho più alcun interesse a rivolgere neppure la parola e, anzi, provo disagio a farlo (e che sia vero anche il contrario non fa che rafforzare la mia posizione). 

È come se fossero mutati, una trasformazione non solo antropologica, ma addirittura ontologica: ormai non sono più umani, ma ultra-umani.

Io no. Io sono ancora umano. E farò di tutto per restare tale.