Se l’artista e scrittice autraliana Margharet Wertheim ci suggerisce analogie tra ciberspazio e paradiso, con un piccolo sforzo di immaginazione in più non è poi così difficile trovare analogie anche tra Internet e l’entità trascendente delle grandi religioni monoteiste.
Con la differenza, però, che la “Mens super omnia” di cui parlava Giordano Bruno preferisce non usare il sistema binario per palesarsi, cosa di cui la nostra generazione, avvezza a osannare la tecnologia, stenta a capacitarsi e soprattutto a perdonare.
Così, quattro millenni dopo averci provato con la ziggurat Etemenanki, l’uomo è tornato a sfidare Dio, costruendo una nuova torre di Babele su cui innalzare un feticcio tangibile, misurabile e, perché no, mercificabile.
Nel giro di pochi anni questo feticcio ha imposto agli umani la sua religione e la sua liturgia. Promettendo una dimensione ultra-terrena (o, se preferite, digitale) ci ha convinti a offrire in sacrificio la nostra vita privata, a sollevare il velo sui pudori più intimi, a condividere i nostri segreti. Smentendo – e non poteva essere diversamente – un illuminista come Voltaire, secondo il quale “chi rivela i segreti altrui è un traditore, ma chi rivela i propri è uno sciocco”.
E’ a questo punto della storia che compare il (o, come dicono in Francia, la) Covid-19. E se in passato avremmo implorato Dio di liberarcene, oggi ci rivolgiamo pieni di speranza al nostro feticcio, al nostro nuovo dio.
Mano a mano che la pandemia si è diffusa nel mondo, infatti, la tecnologia è stata chiamata in causa con metodi e strumenti differenti. In estremo oriente, dove per primo il virus è comparso, sono stati sviluppati sistemi informatici per il tracciamento dei soggetti in base al loro stato di salute. Milioni di tamponi e di test sierologici obbligatori hanno permesso di compilare mappature (tutt’altro che anonime) dei movimenti dei contagiati, allo scopo di geolocalizzare il virus e di contenerne la diffusione. Oggi i numeri (e ripeto: i numeri) sembrano decretare il successo di questa strategia.
In Europa, l’approccio orientale sembra fare a cazzotti con le libertà costituzionali e le esigenze di tutela della privacy. Ma sarà poi vero?
Le informazioni “tracciate” in Cina sulla scorta dell’emergenza Coronavirus sono lo stesse che noi europei sappiamo essere già da tempo in mano ai grandi colossi della rete. E il motivo è semplicissimo: inebriati dall’incantesimo del Web, abbiamo passato gli ultimi vent’anni a lanciare in aria, come coriandoli, i nostri dati personali e sensibili. Il GPS segue ogni nostro passo, Google registra ogni nostra ricerca, Amazon conosce i nostri gusti e i nostri bisogni, presenti e futuri. I giganti di internet possiedono dati sui nostri orientamenti sessuali e sul nostro stato di salute. Abbiamo affrescato le stanze virtuali di internet con i primissimi piani dei nostri amici, dei nostri partner, dei nostri figli. Sanno se abbiamo animali da compagnia, dove e con chi andiamo in vacanza, che libri leggiamo, quale partito votiamo (o voteremo). Hanno in mano anche la nostra carta di credito.
La nostra tranquillità e la nostra sicurezza riposano esclusivamente sulla speranza che i giganti di internet, come anche i nostri governi democratici, utilizzerebbero i nostri dati sensibili (e sensibilissimi) solo per ragioni di estrema gravità.
Una di queste gravi ragioni è proprio la sicurezza sanitaria globale. E allora proviamo a chiederci cosa succederebbe se, in nome di tale sicurezza, le compagnie di telecomunicazione proponessero come condizione contrattuale la condivisione dei nostri dati con altri attori del mercato. Se respingessimo questa condizione, saremmo disposti a rinunciare ai loro servizi? E se non fossimo noi, ma il nostro governo a respingere la condizione in parola, magari in nome della privacy dei cittadini, saremmo disposti a perdonare chi ci priva dell’accesso a internet?
Così inquadrata la questione, ci si rende conto che non c’è tutta questa differenza tra il lontano oriente e la nostra cara, vecchia Europa. Se in Cina lo Stato può schioccare le dita e ottenere dalle compagnie di telecomunicazione i dati degli utenti, in Europa l’influenza che queste compagnie esercitano sui governi nazionali è tale che esse perseguono i loro obiettivi e le loro strategie guidando lobbisticamente per mano i legislatori nella direzione del graduale indebolimento delle norme sulla privacy (risultato che, sia detto per inciso, è favorito dall’esistenza stessa dell’Unione europea).
In un caso e nell’altro, come si vede, il destino dei dati sensibili sembra segnato. Ma c’è di più, perché potrebbe non essere lontano il giorno in cui si finirà per stigmatizzare il comportamento di chi dovesse invocare il primato della privacy individuale sulla condivisione dei dati sensibili. Basterà equiparare – digitalmente – questo comportamento egoista, e quindi anti-sociale, a quello di chi guida ubriaco, di chi si fa beffe della raccolta differenziata o di chi si vanta di evadere il fisco. Tanto per capirci: basterà mettere un bel like a “#trasparenza per la salute globale” e un bel dislike a “#privacy”.
Chissà se il nostro feticcio assolverà chi pecca di egoismo.
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