In questo “nuovo scenario mondiale” delineato dal post-Coronavirus, di cui tanti parlano a casaccio, molte cose stanno cambiando in fretta, molto in fretta.
Facciamo un paragone con i “cookies”, i famigerati “marcatori” che incontriamo sistematicamente, da anni, nel rutilante mondo libero – perché virtuale – di internet. I cookies, giorno dopo giorno, scandagliano sistematicamente e fanno incetta dei nostri dati sensibili e sensibilissimi (gusti, tendenze, orientamenti, identità), “estorcendo” il consenso che ci affrettiamo a fornire pur di levarci di torno quella fastidiosa finestrella che ci impedisce di leggere l’articolo che stavamo affannosamente cercando on-line.
Ebbene, l’attentato alla nostra privacy costituito dai cookies impallidisce rispetto alla nuova, ultima e colossale minaccia rappresentata dalla tracciabilità permanente degli spostamenti, che – come si ostinano ad assicurare i media più maliziosi – costituirà il pilastro portante della sicurezza globale post-pandemia.
Così, se prima del Coronavirus permettevamo alla tecnologia, più o meno consapevolmente, di “rubare” i nostri dati, dopo il Coronavirus permetteremo alla tecnologia di soprintendere alle nostre vite.
Non ci credete? Prendiamo ad esempio la formazione universitaria. Agli studenti si chiede da anni di valutare i servizi offerti a pagamento dalle università, alla stregua dei clienti di un centro commerciale o dei passeggeri in transito in un aeroporto superaffollato (come ai bei tempi!). Oggi, nelle università simbolo del “nuovo scenario mondiale”, che aspirano a diventare tutte indistintamente “non luoghi telematici”, agli studenti si impongono corsi, esami e tesi online senza che nessuno si preoccupi di ascoltare il loro parere o di acquisire il loro consenso. Ma se io studente (che pago le tasse con soldi reali, e non virtuali!) mi sono iscritto a una università “normale” e non telematica, ci sarà pure un motivo, o no? Ed è mai possibile che non importi proprio niente a nessuno?
Ancora più significativo, dal punto di vista della tutela della privacy, è che in questa nuova realtà universitaria virtuale gli studenti dovranno effettuare uno speciale “riconoscimento”, a seguito del quale sarà loro rilasciata una “card” che permetterà di accedere ai servizi d’ateneo e un domani, perché no, di attestare l’immunità dal Coronavirus.
Passato, presente e futuro si intrecciano, come al solito. Se la “card” universitaria ricorda tanto la “tessera” del partito di altri tempi, senza la quale si poteva fare ben poco, la tracciabilità richiama scenari che fino a pochissimo tempo fa non avremmo esitato a definire fantascientifici e distopici, secondo il modello orwelliano, e che oggi invece molti sembrano disposti ad accettare e a tollerare in nome – più che della tutela della salute – di una distorta percezione della modernità e del progresso.
Intendiamoci, la parola “immunità” è destinata ad assumere un peso specifico sempre più rilevante nelle nostre vite. Ma allo stesso tempo è semplicemente terrificante pensare che possa essere un’applicazione dello smartphone a riconoscere (o, peggio, a decidere) i luoghi da visitare, le attività da svolgere, le persone da frequentare, le emozioni da provare.
Tutto ciò mi ricorda una canzone di Giorgio Gaber del 1973, La libertà. Com’è che cantava Gaber? “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”. Tolti gli alberi e i mosconi, decisamente in recessione in un Paese che si permette di trasformare in cemento 100.000 ettari di territorio ogni anno, e tolti gli spazi liberi, perché a breve saremo tutti indistintamente tracciati, ecco che la tecnologia ci regala graziosamente nuove e fantasiose forme di partecipazione sociale, a condizione, ovviamente, di essere “immuni”: oggi dal Coronavirus, domani si vedrà.
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