Ci si può curare senza medicine, magari con le erbe? L’altro giorno, sulla bancarella di un mercatino, strizzava l’occhio un libretto stampato a Modena nei primi anni Cinquanta ed intitolato, appunto, “Per curarsi con le erbe” (1). Pubblicato in diciassette edizioni (la prima era del 1936, ignoro se ce ne siamo altre successive alla diciassettesima), quel libretto si è rivelato una miniera di informazioni curiose, che pure suscitano, in chi ha superato gli “anta”, qualche ricordo. Sfogliando il libretto ho appreso, ad esempio, che la lombaggine si può curare, oltreché con gli impiastri di lino, anche con l’applicazione di una polentina fatta di farina di avena ed aceto; e che l’insonnia si può combattere con un infuso di fiori di basilico, di luppolo e di biancospino. Ma nel libretto sono descritti cure e rimedi anche per il “tremito senile”, l’ipertensione, l’obesità, il diabete, l’aneurisma e l’arteriosclerosi.
Sulla stessa bancarella, nello stesso mercatino, c’era un altro libretto, il diario di un medico condotto nella Lucania degli anni Venti (2). Redatto nello stile scarno di un resoconto giornaliero, ma successivamente integrato dai commenti e dalle osservazioni del figlio del redattore, il diario registra le patologie che affliggevano una popolazione, all’epoca, quasi interamente occupata in agricoltura ed offre una testimonianza diretta delle possibilità diagnostiche e terapeutiche della medicina ufficiale di quegli anni. Dalla lettura del Diario è emerso, ad esempio, che degli oltre 60 casi esaminati in quasi un anno di condotta (per l’esattezza tra il luglio 1924 e il marzo 1925) la più gran parte parte erano relativi a patologie quali sifilide, tubercolosi, malaria, tracoma, broncopolmonite, polmonite pneumococcica, brucellosi, tifo e carbonchio.
Vaccini e sieri a parte, l’armamentario farmacologico dell’epoca era costituito dall’onnipresente chinina e da tutta una serie di altre sostanze di origine vegetale: valeriana, laudano, belladonna, digitale, canfora, caffeina, senape, stricnina. E non poteva essere diversamente, dato che la farmacopea di allora era dominata da farmaci galenici la cui efficacia era direttamente proporzionale alla capacità professionale del farmacista che li preparava. Una chicca: nell’unico caso registrato di ictus cerebrale, il nostro medico condotto avalla l’applicazione delle sanguisughe per sfruttare l’azione decongestionante e anticoagulante dell’irudina, sostanza contenuta nella saliva dell’animale.
Oggi le malattie ed i rimedi elencati nel diario del medico condotto nella Lucania degli anni Venti sono (quasi) tutti scomparsi e di essi resta solo il ricordo. Peccato che, con essi, sia scomparsa anche la memoria di terapie e prodotti naturali che – pur interagendo con una buona dose di superstizione, e forse anche per questo – si rivelavano molte volte efficaci[3].
In compenso abbiamo tumori e virus devastanti, per buona parte di origine “post-industriale” e cioè collegati o conseguenti all’inquinamento, alla cementificazione selvaggia, all’industrializzazione insensata per un Paese ricco di risorse naturali (non petrolio e gas, ma arte, architettura, ambiente, agricoltura, alimentazione), all’uso massiccio di prodotti chimici in agricoltura, all’alterazione della catena alimentare, alle manipolazioni genetiche, alla riduzione della biodiversità, ai cambiamenti climatici e chi più ne ha più ne metta. Intendiamoci, non è detto – perché non è scientificamente provato – che, ad esempio, gli OGM provochino i tumori; ma non è detto – perché non è scientificamente provato – che non li provochino. E per combattere queste nuove patologie abbiamo nuovi farmaci, la cui efficacia non dipende più dalla bravura e dall’eticità del farmacista, ma da considerazioni e parametri talvolta del tutto estranei alle esigenze terapeutiche.
Beh, per fortuna che c’è il progresso, sai che noia altrimenti.
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[1] F. Borsetta, Per curarsi con le erbe, Tipografia Ferraguti, Modena, 1952.
[2]L. Luccioni, Diario di un medico condotto nella Lucania anni Venti, La Buona Stampa, Ercolano, 1991. Il Diario è stato redatto da Consuelo Luccioni, figura di spicco della sanità lucana del dopoguerra, fondatore della clinica Luccioni di Potenza, che, assorbita dal sistema sanitario nazionale, esiste ancora oggi.
[3]In proposito vale proprio la pena di vedere, o di rivedere, un film di Mario Monicelli del 1956, “Il medico e lo stregone”, ambientato – guarda caso – in un paesino della Lucania, dove Vittorio De Sica recita la parte dell’anziano e venerato guaritore e Marcello Mastroianni quella del giovano e inesperto medico condotto.