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E SE IL CORONAVIRUS FOSSE UN COMPLOTTO? MA DAI, NON FARMI RIDERE…

Per occultare una verità non c’è niente di meglio che gridare al complotto. È il modo più felpato, ed efficace, per scoraggiare il ricercatore rigoroso, figuriamoci il semplice dilettante: se, per indagare correttamente un fenomeno e le sue cause, si corre il rischio di passare per complottista o, peggio, per anti-scientista (cosa che in genere prelude alla patente di santone o di ciarlatano) e quindi di essere ostracizzato dai salotti buoni, è assai probabile che si finisca con l’adagiarsi sulle tesi dominanti, lasciandosi trasportare dalla corrente e accantonando ogni eventuale vestigia di onestà intellettuale.

Così è per il Coronavirus. Le cause della pandemia potrebbero essere state le controverse politiche sanitarie degli ultimi vent’anni, la diffusione del 5G, l’elettrosmog o il più classico inquinamento atmosferico, il riscaldamento globale, i cambiamenti climatici, l’eccezionale congiunzione astrale verificatasi in queste settimane, un’oscura profezia medievale e chi più ne ha più ne metta. Ma noi non lo sapremo mai, perché ciascuna di queste cause, come anche la loro eventuale interazione, viene sbrigativamente liquidata alla stregua di un complotto da quegli scienziati (singoli o in gruppo) cui i media riconoscono il ruolo di depositari delle più alte e inoppugnabili verità ufficiali. Come facciano poi gli scienziati in questione a licenziare queste inoppugnabili verità in assenza di evidenze scientifiche certe e definitive (cioè, lo stesso argomento che essi usano contro i loro avversari “complottisti”), rimane per molti un mistero.

Comunque sia, ora che ci siamo abituati alla vita ai tempi del Coronavirus, con i suoi ritmi e le sue cautele, qualche riflessione e qualche domanda sulla gestione dell’emergenza sanitaria e, soprattutto, su quello che avverrà dopo l’emergenza, non possiamo evitare di farcela, a dispetto degli scienziati di cui sopra (ce ne faremo una ragione!).

Ad esempio: senza il Coronavirus, avremmo tollerato le misure restrittive delle libertà personali imposte dal governo, per decreto, nel corso dell’ultimo mese? Forse sì o forse no: l’unica cosa certa è che l’emergenza sanitaria legittima oggi l’adozione di metodi e contenuti normativi che, permanendo anche in futuro l’esigenza prioritaria di tutelare la salute, potrebbero favorire l’ipotesi di istituzionalizzare forme di controllo sull’esercizio delle libertà in questione. Se in altre comunità infuria la polemica (ma sarà poi vero?) sui “pieni poteri” estorti da governi autoritari a parlamenti imbelli o compiacenti, a casa nostra sembrano tornare di moda strategie che, pur opportunamente ammorbidite, seguono sempre lo stesso clichè: 1) sollevare preoccupazione nei confronti di situazioni di crisi o emergenze di varia natura; 2) alimentarla tramite la grancassa mediatica; 3) gestirla mediante soluzioni politico-normative e uomini forti, che prospettino all’opinione pubblica risposte efficaci, anche se a prezzo di inevitabili sacrifici. Tra parentesi, è un pezzo che in Italia si conosce nome e cognome dell’Uomo Forte che verrà, come anche di buona parte dei membri della squadra di governo che si insedierà dopo quella attualmente in carica: dal punto di vista politico, in effetti, il Coronavirus non ci ha rivelato nulla di nuovo.

Il discorso sui “pieni poteri” ci porta dritto dritto a chi veramente ne dispone e, soprattutto, ha un programma preciso e gli strumenti per utilizzarli, e cioè all’Unione Europea (piaccia o non piaccia agli Stati, anche a quelli “sovranisti” e autoritari, almeno finché ne fanno parte). Non è irragionevole ipotizzare, infatti, che nelle prossime settimane l’Unione valuti l’opportunità di ravvicinare, o in alternativa di uniformare, le normative degli Stati membri volte a disciplinare la tracciabilità degli spostamenti dei soggetti a rischio Coronavirurs (in altre parole: di chiunque).

Annunciata come “la via coreana” al contenimento della pandemia dai principali quotidiani italiani (alcuni dei quali salutano addirittura come affermazione di libertà la possibilità di scaricare “volontariamente” l’app di riferimento), la tracciabilità degli spostamenti farebbe evidentemente a cazzotti con le più elementari esigenze di privacy, tanto da apparire improponibile, e per certi aspetti distopica, a molti uomini di buona fede. Va però ricordato che, per l’ordinamento dell’Unione, la privacy non costituisce un ostacolo insormontabile quando determinati provvedimenti siano ritenuti “necessari, appropriati e proporzionali all’interno di una società democratica”.

Se a ciò si aggiunge: 1) l’ovvio interesse che il mercato delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nutre per l’introduzione del sistema di tracciabilità degli spostamenti; 2) il meno ovvio, ma altrettanto consistente, interesse che il mercato della biomedicina e delle biotecnologie nutre verso l’introduzione di test, screening e vaccinazioni di massa; 3) la possibilità che qualsiasi sistema di tracciabilità, pur formalmente volontario, finisca per costituire in sostanza la conditio sine qua non per l’accesso e la fruizione di beni, servizi e prestazioni (pubblici o privati), può concludersi che di una cosa dobbiamo essere grati alla pandemia: e cioè di avere fugato ogni dubbio sul modello di “società democratica” invocato dai globalisti e dalle loro istituzioni di riferimento, UE (e WTO) in testa. D’ora in avanti sapremo, di fronte a chi dovesse gridare al complotto in presenza di fenomeni così complessi e articolati, senza produrre le prove dell’effettiva esistenza del preteso complotto, di trovarci al cospetto del vero complottista (o di un colluso o di chi aspira alla patente di ignorante).

Infine qualche parola su un profilo di questa vicenda che potrebbe assumere, in prospettiva, un rilievo specifico nell’ambito del diritto e delle relazioni internazionali. Tutti conoscono gli “Stati falliti” e gli “Stati canaglia”, e cioè quegli apparati di governo che non sono in grado di contrastare oppure tollerano o addirittura promuovono l’organizzazione sul proprio territorio di attività criminali rivolte contro cittadini ed organi di altri Stati: basti pensare alla pirateria marittima nel Corno d’Africa o nel Golfo di Guinea e a talune forme di terrorismo internazionale. Il discorso è più complesso, e controverso, per quelle attività apparentemente lecite, ma destinate comunque a produrre effetti negativi al di fuori dei confini nazionali, come, ad esempio, l’inquinamento (in specie nucleare). C’è quindi da chiedersi se, in futuro, alla categoria degli Stati “falliti” o “canaglia” non sia destinata ad aggiungersi quella degli Stati “untori”, e cioè gli Stati che non siano in grado di contrastare oppure tollerino o addirittura promuovano la circolazione dei propri cittadini come vettori di virus destinati a destabilizzare l’economia, la politica e la società di altri Stati. Magari nel silenzio di qualche organizzazione internazionale.

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