Vai al contenuto

I disaster film e la politica dello struzzo

Più si parla di ambiente, più la gente comune acquista progressivamente consapevolezza della gravità e della irreversibilità dei danni inflitti dall’uomo al suo stesso habitat, e più il cinema spettacolare ci propina disaster movie dove le catastrofi più temute e colossali sono tutte causate da fattori e interventi esterni alla dimensione umana.

Piogge di meteoriti, asteroidi assassini, alieni mutanti in visita più o meno permanente sulla terra, eruzioni, terremoti e tsunami tanto eccezionali quanto inevitabili, cicliche reviviscenze di virus famelici e finanche invasioni di zombie: tutte cause possibili, secondo Hollywood, dell’estinzione della vita sul nostro pianeta, senza con ciò scomodare le responsabilità dell’uomo di ieri o di oggi (o di domani). Che è un po’ come dire: pazienza, se proprio dobbiamo sparire, in fondo non è colpa nostra, e andiamo avanti come prima ché tanto non cambia nulla.

E’ curioso, però, che fino a qualche decennio fa i disaster movie fossero tutti ispirati agli effetti (magari imprevisti o imprevedibili) dell’agire umano, a partire dagli esperimenti nucleari degli anni Cinquanta fino ad arrivare all’utilizzo delle biotecnologie e della robotica degli anni Novanta. Basti ricordare alcuni classici, quali L’ultima spiaggia del 1959, Jurassik Park del 1993, Io, robot del 2004.

Probabilmente, la causa del maggiore realismo hollywoodiano di ieri va in parte ricondotta al fatto che lo stesso star system di Hollywood, almeno in un caso, ha pagato un alto tributo alle rutilanti meraviglie del progresso tecnologico. Nel 1956, infatti, la RKO produsse e distribuì un film intitolato Il Conquistatore: nelle intenzioni un colossal, con un cast di prim’ordine, ma in verità abbastanza bruttino e, oggi, praticamente sconosciuto. Il solo motivo per cui questo film è ricordato dagli esperti è che praticamente l’intero suo cast rimase vittima degli effetti delle radiazioni assorbite durante le riprese, visto che il set si trovava a circa 140 miglia dal (e sottovento al) Nevada Test Site, un poligono di tiro nel cuore del deserto del Nevada dove, dal 1951, l’esercito americano conduceva test atomici.

Tanto per la cronaca, nel cast del film in questione figuravano attori di primaria grandezza nel firmamento di Hollywood, da John Wayne a Susan Hayward, da Pedro Armendariz a Agnes Moorehead, con Dick Powell come regista e niente meno che Howard Hughes come produttore (e proprio a Hughes le autorità militari avevano assicurato a più riprese la sicurezza del sito). Tutti gli attori citati, nonché il regista, morirono di tumore nell’arco di pochi anni (come del resto 91 dei 220 membri della troupe): Hughes, invece, sopravvisse, ma – forse roso dai complessi di colpa, forse a causa del suo progressivo deterioramento mentale – comprò tutte le copie distribuite del film e lo fece sparire dalla circolazione.

Oggi, a differenza del passato, i disaster movie proiettano su agenti e fenomeni diversi dall’uomo colpe e responsabilità di tutto ciò che, giornalmente, i media indicano come componente essenziale (e per certi aspetti necessaria) delle paure dell’umanità post-moderna, dai cambiamenti climatici all’innalzamento delle acque degli oceani alle epidemie, e chi più ne ha più ne metta.

Chissà che film faranno sul Covid.