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Breve la vita felice di Francis Macomber (che faceva il cacciatore)

Il problema non è tanto che Flavio Insinna dica in televisione di essere personalmente contrario alla caccia, né che Federcaccia replichi minacciando azioni legali e il boicottaggio (addirittura!) dei prodotti reclamizzati durante la trasmissione incriminata.

Il problema vero è che qualche strenuo amante del politically correct scenda in campo per esaltare la valenza antropologica e culturale di quella che una volta era l’arte venatoria e, soprattutto, per ricordare che la caccia, in fondo, è un’attività disciplinata dalla legge.

Nella contrapposizione tra “regolisti” e “negazionisti”,  destinata in futuro a estendersi a macchia d’olio e ad acuirsi sempre di più, si inserisce così, è il caso di dire a mano armata, anche il tema del “prelievo venatorio”, come pudicamente una legge dello Stato, la n. 157 del 1992, definisce la caccia, disciplinandola nell’ambito della “protezione della fauna selvatica omeoterma” (quanta ipocrisia, eh?).

Infatti, se è vero che la caccia è un’attività disciplinata in astratto dalla legge, è altrettanto vero che l’applicazione della legge in questione sconta la necessità di verificare, caso per caso e in concreto, se i limiti e le condizioni da essa stabiliti siano realmente utili e praticabili.

Al riguardo, forse non tutti sanno che la caccia è vietata per una distanza di 100 metri da case, fabbriche ed edifici adibiti a posto di lavoro, e che è vietato sparare in direzione degli stessi da distanza inferiore di 150 metri. O forse non tutti sanno che la caccia è vietata per una distanza di 50 metri dalle strade (comprese quelle comunali non asfaltate) e dalle ferrovie, e che è vietato sparare in direzione di esse da distanza inferiore a 150 metri. O, ancora, che la caccia è vietata a una distanza inferiore di 100 metri da macchine agricole in funzione e che la caccia nei fondi con presenza di bestiame è consentita solo ad una distanza superiore a metri 100 dalla mandria, dal gregge o dal branco.

Ora, in un Paese che dal dopoguerra a oggi ha fatto del cemento la sua principale fonte di ricchezza, che da poco conosce piani regolatori e norme urbanistiche, che indulge nel condono degli abusi edilizi con cadenza decennale (1985, 1994, 2003), che nonostante ciò – ma forse proprio per questo – continua ad essere il Paese in Europa con la più alta percentuale di abusi sul totale del costruito (in Campania, ad esempio, circa il 41% delle case è abusivo), che umilia e svilisce il proprio patrimonio artistico, architettonico, archeologico e paesaggistico, che si fa beffe dei dissesti idrogeologici e che continua a costruire case anche sulle pendici dei vulcani attivi, come è possibile pensare che le distanze stabilite da una legge di trent’anni fa siano ancora utili e praticabili?

Chiunque frequenti abitualmente le campagne antropizzate d’Italia sa bene che case, fabbriche, edifici adibiti a posto di lavoro, strade, ferrovie, macchine agricole in funzione, mandrie, greggi e branchi si intrecciano e coesistono a distanze ben inferiori a quelle stabilite dalla legge. E sa anche che, per cinque mesi all’anno, da settembre a gennaio, soprattutto il sabato e la domenica, bisogna fare i conti con dilettanti armati che si aggirano impunemente sui terreni altrui (come stabilisce l’art. 842 del codice civile), sparando come forsennati a quel poco di fauna selvatica rimasta in Italia. E, ancora, sa che, dopo il passaggio dei cacciatori, dovrà raccogliere i bossoli e gli altri rifiuti abbandonati impunemente da questi “sportivi”; o riparare i danni da essi prodotti per costruirsi appostamenti e altri comodi ripari (magari smantellando muretti a secco o abbattendo cespugli di macchia selvatica); o raccogliere i pallini di piombo disseminati sui solai delle abitazioni, per evitare che vadano a inquinare l’acqua potabile delle cisterne.

E guai a lamentarsi con i cacciatori, magari pretendendo il rispetto delle famose distanze di legge, come di recente hanno dimostrato gli atti di intimidazione armata commessi da quattro galantuomini, che si definiscono cacciatori, nei confronti di alcuni residenti delle campagne di un comune pugliese.

500 milioni di cartucce vengono sparate in Italia ogni anno (circa 800 per ciascun cacciatore: dati del 2015): se tutto quanto ho detto finora non avesse smosso la vostra coscienza, provate a pensare all’inquinamento prodotto dai pallini di piombo (17.500 tonnellate) e dalla plastica dei bossoli che restano sui terreni e che si riversano annualmente su terreni, fiumi e laghi italiani, inquinando coltivazioni e falde acquifere destinate a voi e ai vostri figli e nipoti.

Una soluzione c’è: chiedere alle amministrazioni comunali di adottare provvedimenti che vietino l’attività venatoria negli spazi dove risulti inapplicabile la legge n. 157/92 sopra citata, come hanno già fatto alcuni sindaci, ma solo del Centro-Nord (confermando, anche in questo campo, l’ennesima spaccatura culturale del Paese). Se volete sapere come fare, cliccate qui.

E ai cacciatori l’augurio di trovare il tempo per leggere il racconto di Ernest Hemingway citato nel titolo di questo post o, se preferiscono, il libro che, secondo Hemingway (e secondo chi scrive), è stato il miglior libro mai scritto sulla caccia: Il leopardo che mangiava gli uomini, di Jim Corbett.